Motivazione: una ricetta per salvare il mondo
L’altra sera ripensavo a una celebre frase di Luciano De Crescenzo: “La vita potrebbe essere divisa in tre fasi: rivoluzione, riflessione e televisione. Si inizia volendo cambiare il mondo e si finisce col cambiare i canali“. Frase sicuramente ad effetto, come era tipico del personaggio, ma che contiene un’indubbia verità: chi di noi, almeno con l’entusiasmo della gioventù, non ha sognato e ritenuto possibile fare un lavoro che potesse salvare il mondo?
Salvare il mondo è certamente il più nobile degli ideali, ma poi tocca fare i conti con la realtà; non potendo vivere quindi di soli ideali, c’è chi si impegna a trovarsi un lavoro con cui poter dare il proprio contributo alla salvezza del mondo e chi, invece, si limita a cambiare i canali. Lo sviluppo tecnologico prima e lo smartworking in seguito hanno portato il lavoro che svolgiamo sempre più profondamente dentro le nostre case.
Se, da un lato, ne sono evidenti i vantaggi, per il singolo lavoratore, per il suo datore di lavoro e, in ultimo, per l’intera società, d’altro canto è altrettanto chiaro come la frontiera tra ambito privato e lavorativo diventi sempre più labile.
Ho avuto la fortuna di fare lavori abbastanza diversi fra loro, ma, anche prima dell’avvento dello smartworking, non sono mai riuscito a tenere separata la mia vita privata dalla mia occupazione. Il lavoro è una parte fondamentale della mia vita e non certo per il fatto che mi dà da mangiare. Rappresenta il mio modo di esprimermi e di lasciare un segno del mio passaggio su questa Terra.
Rinchiudere il mio lavoro nella gabbia di un orario nine-to-five è qualcosa che definitivamente non mi appartiene. Se sono a casa, in ferie o comunque non in orario lavorativo, non riesco a non leggere ed eventualmente rispondere a mail, messaggi e telefonate, o comunque a pensare al lavoro: è qualcosa di più forte di me. Credo di non aver mai impostato un Out-Of-Office in vita mia. Non dico questo per vantarmi o come forma per mettermi in mostra. Lo ripeto: il mio lavoro fa parte della mia vita.
Se sto usando il telefono per lavorare, anche quando sono a casa, facendo altre cose, mia moglie mi dice spesso “Guarda che non stai salvando vite umane” ed ha perfettamente ragione. Non sto salvando il mondo! O forse sì. Lasciate che vi racconti una storia… anzi due.
La prima. Recentemente ho visto un’intervista a Guy Kawasaki, Venture Capitalist e mentore per diverse importanti Startup della Silicon Valley, famoso per aver introdotto il concetto di evangelista nel mondo dell’elettronica di consumo. Appartiene alla terza generazione di una famiglia giapponese, immigrata in America, alle Hawaii.
L’intervista rappresenta una sorta di ripensamento sugli anni della sua formazione e in essa racconta di un episodio accaduto al tempo in cui frequentava ancora la scuola pubblica alle Hawaii; un giorno la sua insegnante convocò i genitori consigliandoli vivamente di toglierlo dalla scuola pubblica per mandarlo a quella privata. Non intendo fare un paragone scuola pubblica contro scuola privata: ogni realtà è a sé stante. Esistono scuole pubbliche ottime e scuole pubbliche pessime e lo stesso vale per le private. La sua insegnante aveva semplicemente intuito che in quella scuola il ragazzo non avrebbe potuto esprimere il suo potenziale.
Se i suoi genitori non avessero accolto quel consiglio, sono sempre parole del venture capitalist, la sua vita sarebbe stata profondamente diversa; se la sarebbe comunque cavata, ma non avrebbe avuto lo stesso impatto sull’universo. Normalmente, siamo abituati a pensare che siano persone come Steve Jobs, Elon Musk o Richard Branson quelle che hanno un impatto sull’universo e cambiano il mondo. Non è vero, o meglio, lo è in parte.
Le persone che salvano il mondo sono quelle che hanno a cuore il proprio lavoro e lo fanno con impegno e passione, come quell’insegnante che ha riconosciuto il valore di un semplice ragazzo e, indirizzandolo su un percorso che dalla scuola privata delle Hawaii, lo ha portato a Stanford, alla Apple e a tutto il resto, ha cambiato profondamente la sua esistenza e quella delle persone che questo ragazzo è riuscito a ispirare.
La seconda storia prende spunto dalla stessa intervista e riguarda la motivazione. Ora siamo a Stanford e il suo compagno di stanza, nonché migliore amico, è il figlio di una ricca famiglia californiana. I genitori di questo ragazzo vivevano in una delle zone più esclusive della città; il padre guidava una Rolls Royce e la madre una Ferrari Daytona. Comprensibile che per un ragazzo della lower middle class delle Hawaii, questo potesse sembrare una sorta di paradiso.
Erano gli anni settanta ed era il periodo in cui stavano nascendo le startup che rivoluzioneranno il mondo con l’elettronica e i computer. Gli studenti di Stanford, suoi colleghi, sognavano di cambiare il mondo, di avere un impatto sull’universo. Lui, molto candidamente, ammette che sognava di cambiare la sua macchina: voleva guidare quelle macchine. Per quanto possa apparire “insipida e superficiale”, quella motivazione è stato ciò che lo ha reso determinato a studiare.
La lezione che ne trae è estremamente potente: “non ti devi preoccupare di ciò che ti motiva, devi preoccuparti di essere motivato!” Senza, non andrai da nessuna parte. Potrai anche essere un giovane che ha l’idea di salvare il mondo, ma se non hai una forte motivazione, presto o tardi, finirai semplicemente con il cambiare canale della televisione.
Tempo fa scrissi un articolo esprimendo un concetto molto simile. Parlavo della motivazione, paragonandola all’effetto farfalla. Secondo la formulazione originale di Edward Lorenz, “un battito d’ali di una farfalla in Brasile, potrebbe scatenare un tornado in Texas”. Io ne ho coniato una versione meno distruttiva e più poetica: “un battito d’ali di una farfalla in Australia, provoca una brezza mattutina in Italia che ti fa scendere dal letto e vivere la tua giornata”.
Piccola o grande che sia, devi avere una motivazione che ti fa alzare la mattina e fare quello che hai scelto di fare, al meglio delle tue possibilità e con tutta la passione che sei in grado di esprimere. Tornando a mia moglie, sì, ha ragione lei: non salvo vite umane e non ho mai svolto un lavoro che, nemmeno lontanamente, potesse salvare vite umane.
Sono però fermamente convinto che fare il mio lavoro con impegno, o magari impegnarsi per farne un altro, con passione e amore per quello che si fa, possa, in qualche modo, salvare il mondo. Spesso, mi rendo conto che i momenti più difficili della mia esistenza sono quelli in cui non riesco a trovare una motivazione in quello che sto facendo. La motivazione è ciò che dà un senso profondo alle mie azioni e se una cosa ha senso allora non può che contribuire alla salvezza del mondo.
Mentre sto scrivendo, mia figlia sta ripassando il concetto di entropia: l’Universo tende naturalmente verso uno stato di disordine, aumentando l’entropia. Per rimettere un sistema in ordine devi diminuirne l’entropia, consumando energia. La motivazione è la fonte di questa energia.
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