Maurizio Taddei, vittima della banda Cavallero. L’A.S.: “Per lui abbiamo già fatto troppo”
Milano. Maurizio Taddei aveva 5 anni quando fu colpito da un proiettile che gli trapassò la gola e uscì dalla nuca. Era stato sparato da uno dei mitra della banda Cavallero il 25 settembre 1967, in piazza Firenze. Oggi Maurizio Taddei ha 58 anni. Quel proiettile gli ha lasciato un danno cerebrale. In comune di Milano, però, ai servizi sociali, quando Lina, la mamma di Maurizio, ha chiesto aiuto, hanno risposto “Abbiamo fatto già fin troppo per lui. Ha l’assegno di accompagnamento.”
Non hanno mai chiesto scusa a Maurizio, nè lo hanno mai risarcito
Pietro Cavallero, attivista comunista, Adriano Rovoletto, partigiano, Sante Notarnicola, segretario FGCI (Federazione Giovani comunisti italiani) di Biella e Donato Lopez, allora 17enne, non hanno mai chiesto scusa a Maurizio e alla sua famiglia, nè tantomeno hanno partecipato alle spese per le cure del bambino cui hanno rovinato la vita.
Troppo per un bambino vittima del terrorismo ?
Troppo per la sua famiglia? Non sarà mica perchè a ferire Maurizio Taddei è stato un membro della banda Cavallero, formata da partigiani, da sindacalisti, gente della sinistra? Bella domanda vero? Il dubbio viene naturalmente, quando si assiste a certe frasi. Sembrano denotare la mancanza di empatia nei confronti della più piccola delle vittime di uno dei fatti di sangue più tremendi che hanno sconvolto Milano nel 1967.
Parliamo di Maurizio Taddei, la vittima, e non della banda Cavallero, i carnefici
Il 25 settembre 1967 Maurizio Taddei era alla fermata del tram 19 in piazza Firenze a Milano con sua mamma Lina. Stava accompagnandola alla visita. Aveva 5 anni. In quel momento la banda Cavallero stava seminando la morte fra le strade tra piazzale Lotto e piazza Firenze. Fuggendo dopo la rapina all’agenzia del banco di Napoli di piazza Zandonai, si misero a sparare sulla folla. Un proiettile colpì Maurizio Taddei al collo. Entrò dal mento e uscì dalla nuca.
Avevo quel vestito azzurro
Ho parlato con Lina, la mamma di Maurizio Taddei. Quel giorno è fissato nella sua memoria in tutti i suoi particolari. Particolari quasi insignificanti, quelli su cui si inchioda la mente quando si è sotto shock.
Il colore del sangue di Maurizio sul suo vestito azzurro, l’agente della polizia locale di Milano Civoli, che prende in braccio Maurizio e lo porta di corsa al pronto soccorso di una clinica poco lontana, mentre la sparatoria e l’inseguimento sono ancora in corso. Le macchie di sangue che si allargavano sui pantaloni bianchi della donna che attendeva il tram vicino a lei. Era stata ferita dalle stesse pallottole. Maurizio a terra, con il viso pieno di sangue. Maurizio al pronto soccorso.
I medici che lo medicano, e lo caricano sull’ambulanza che lo porterà all’ospedale di Niguarda. La voce di un medico che dice: ” Povero bambino, speriamo che ce la faccia”. Lei che non aveva ancora capito cosa era successo, e che si ripeteva: ” Ma come? Speriamo che ce la faccia? Che ce la faccia, cosa?”
Maurizio Taddei ce la ha fatta, ma non del tutto
E’ riuscito a sopravvivere e anche a riacquistare la voce. Si era temuto non potesse più parlare. I medici hanno dovuto nel tempo ricostruirgli la mandibola. In quella parte del viso non sono potuti nascere i dentini definitivi.
E’ successo anche qualcosa d’altro. Sarà stato che il sangue in gola ha rischiato di soffocarlo, lasciandolo senza ossigeno, sarà che il proiettile ha sfiorato il cervello, ma sin dal momento in cui Maurizio è tornato a casa dall’ospedale, dopo un ricovero di 3 mesi all’ospedale di Niguarda, ha avuto problemi.
Alla fine, con l’adolescenza è arrivata anche la diagnosi: schizofrenia. Chiamiamola così, perchè le malattie, qualunque sia la causa, hanno sempre un nome che le definisce in base ai sintomi.
E’ come un bambinone
Mamma Lina descrive Maurizio come un bambinone. “Io non so come sarebbe stata la vita di Maurizio se quel giorno non fosse stato ferito. Però prima era un bambino sano. Magari crescendo si sarebbe fatto la sua famiglia, magari no. Però avrebbe avuto la sua vita. Non è nato così e lo so che non guarirà più. Non chiedo i miracoli. Vorrei solo che fosse assistito in modo che non debba concludere la sua vita senza uno scopo. Ha bisogno di essere stimolato, di sentirsi utile, di fare qualcosa, di avere un compito.” Ha bisogno, insomma, di essere felice nonostante la sua infermità.
Ma con tutte le cooperative sociali che ci sono, a Milano non ce ne è una per aiutare Maurizio Taddei?
Mamma Lina ha chiesto ai servizi sociali di trovare, per Maurizio, una comunità di residenza che sia anche terapeutica, in cui possa lavorare. Ora, infatti, Maurizio è piuttosto triste. C’è qualcosa che non va bene per lui, dove è adesso. La risposta del dottor Papa dei servizi sociali è stata che “i servizi sociali hanno fatto già troppo”. Non conosco questo dott. Papa. Ho cercato di contattarlo nei giorni scorsi, per chiedergli cosa intendeva dire, se la frase gli è scappata in un momento di stanchezza o se pensa davvero ciò che mi ha riferito la signora Lina. Non ci sono riuscita.
Lo cercherò ancora nei prossimi giorni, ma non posso più aspettare a scrivere di questa storia. Sembra che questo “aver fatto anche troppo” sia stato l’aver concesso a Maurizio l’assegno di accompagnamento riservato agli invalidi e che serve per pagare una parte della retta della comunità o della casa famiglia che, altrimenti, sarebbe totalmente a carico della famiglia.
Mamma Lina
La mamma di Maurizio oggi ha circa 80 anni. Tutta la sua vita è girata intorno al 25 settembre 1967 e alle cure per Maurizio, ai tentativi di recuperare la sua salute mentale. Come tutti i famigliari dei malati è esperta della malattia di suo figlio. La conosce perfino meglio dei medici. E’ una donna attiva, è una nonna felice, ma è anche una mamma preoccupata per il futuro del suo Maurizio.
Mancanza di empatia, mancanza di conoscenza, o una questione “politica”?
Forse gli assistenti sociali di Milano conoscono poco la storia di quella rapina. Forse si sentono invece in imbarazzo a prendere atto che, in momenti in cui le sardine e la canzone “Bella ciao” possono essere “utili” all’avvicinarsi delle elezioni amministrative milanesi è meglio far finta che certe cose non siano successe. Non lo so, ma l’amministrazione Sala ha la tendenza a nascondere la polvere sotto i tappeti quindi, nel dubbio, vi racconto chi erano i rapinatori. Qui in basso il film inchiesta sulla banca cavallero e sulla rapina di Milano, girato nel 1968.
Banda Cavallero Film:”Banditi a Milano”
Come spesso accade, il focus è sullo scontro fra i banditi e la polizia, ed è dato poco spazio, praticamente nessuno, alla storia dalle vittime. E’ come se si pensasse che, finita la sparatoria, i morti siano stati seppelliti e i feriti abbiano continuato la vita come se nulla fosse successo. Un anno dopo tutto era considerato a posto: i delinquenti in galera, i feriti guariti senza danni, e morti hanno avuto un bel funerale commovente. Ed era il 1968, l’inizio degli anni di piombo e ci si domandava come mai a Milano, nel 1967, la gente voleva linciare 4 comunisti, fra cui un partigiano, che avevano compiuto una strage per rapinare una banca.
Che fine ha fatto la banda Cavallero che al processo intonò la canzone figli dell’officina
Due parole sulla banda Cavallero, prese da wikipedia. Pietro Cavallero è uscito di prigione nel 1988, si è convertito al cristinesimo e ha passato il resto della vita ad aiutare gli emarginati al Sermig di Torino. E’ morto di cancro nel 1997 senza aver mai scritto una parola o una richiesta di perdono, o inviato un aiuto o un pensiero a Maurizio.
Sante Notarnicola si dichiarò “detenuto politico” e fu tra gli ergastolani più contestatori d’Italia. Durante il sequestro, conclusosi con l’ omicidio, di Aldo Moro, le Brigate Rosse chiesero allo Stato la liberazione di detenuti politici. Notarnicola era in cima alla lista. E’ uscito dal carcere nel 2000. Ora vive in centro a Bologna. Mai una parola, una richiesta di perdono o un aiuto concreto nei confronti del bambino cui ha contribuito a rovinare la vita.
Adriano Rovoletto è morto a causa del diabete, nel 2015. Sua madre fu l’unica a inviare una lettera alla mamma di Maurizio, poco dopo i fatti, quando Maurizio era ancora in ospedale. Era una freddissima lettera con una richiesta di incontro con tutta probabilità suggerita, se non dettata, dall’avvocato difensore. Senza una scusa, senza una richiesta di perdono, senza nulla. Da Adriano Rovoletto non è mai arrivata una parola per Maurizio o per la sua famiglia.
Donato Lopez aveva solo 17 anni. Fu condannato a 12 anni e ha scontato la pena. Un articolo di Meo Ponte su Repubblica, datato 25 settembre 2007, il 50esimo anniversario della rapina, racconta la cattura di Lopez e informa che era un ragazzino tirato dentro alla banda perchè ne aveva scoperto per caso il deposito di armi.
Torniamo a Maurizio. Le istituzioni di allora
Fra i ricordi a casa di mamma Lina, c’è ancora l’automobilina di topolino che l’agente Civoli della polizia locale di Milano regalò a Maurizio, quando andò a trovarlo in ospedale. Ci sono anche due lettere del prefetto di quei tempi, Libero Mazza. Una accompagnava un assegno di 500 mila lire, donato dalle istituzioni come segno di solidarietà della comunità. L’altra era una lettera che portava gli auguri del primo ministro in carica nel 1967, Aldo Moro. Poco più di 10 anni dopo, nel marzo del 1978, le brigate rosse lo rapirono e, fra le altre cose, chiesero la liberazione del membro della banda Cavallero Sante Notarnicola in cambio della sua vita.
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