Il confine sottile
Se c’è una cosa che ho imparato sul mondo moderno è che, per praticamente ogni cosa, esiste un confine sottile tra un suo utilizzo a scopo utile e uno sbagliato. Un tempo si faceva il classico esempio del coltello: con questo strumento possiamo fare una marea di cose utili, buone, positive, ma possiamo anche uccidere una persona. Lo strumento in sé non è né buono né cattivo, la discriminante è l’utilizzo che se ne fa. L’esempio del coltello, declinato ai giorni nostri, è Internet. Quello su cui vorrei ragionare oggi insieme a voi riguarda un aspetto in particolare dell’utilizzo di Internet e cioè il confine estremamente sottile tra buono e cattivo uso della Privacy sul Web.
Ogni volta che navighiamo in rete, alla ricerca di un prodotto che stiamo per comprare, per soddisfare qualche curiosità, oppure il modo stesso in cui stiamo navigando nelle pagine web, con quali device o con quali browser… ogni singolo istante che noi trascorriamo su Internet è in grado di generare un’impressionante mole di dati che dicono qualcosa di noi. Tutti questi dati confluiscono in enormi database di informazioni che vengono quotidianamente dati in pasto agli algoritmi di Intelligenza Artificiale con il fine ultimo (spesso o almeno la maggior parte delle volte) di presentarci prodotti che potremmo essere interessati ad acquistare.
Nelle scorse settimane leggevo un interessante libro sul Metaverso edito da Milano Finanza. In esso, mi ha colpito moltissimo la descrizione del nuovo algoritmo che sta sviluppando Amazon (per ora è solo in versione beta). Detto in parole semplici il funzionamento è il seguente. Diciamo che stiamo pensando di acquistare un prodotto. Il tipico comportamento di ognuno di noi è quello di andare in rete e iniziare ad informarsi su questo prodotto: cerchiamo caratteristiche, prezzi, garanzie, recensioni degli utenti, prestazioni… Arriviamo ad un certo punto in cui ci siamo convinti e abbiamo deciso di comprare. Proprio in quel momento, quando stiamo per fare click sul pulsante “Acquista” che succede? Il nuovo algoritmo di Amazon ha già previsto la nostra azione e alla nostra porta si presenta un corriere e ci consegna ciò che stavamo per ordinare. La cosa strabiliante, ma anche un poco inquietante, è che durante la fase di sperimentazione dell’algoritmo, solo il 4% delle persone ha rimandato indietro il prodotto: ben il 96% lo ha tenuto.
Ricordo quando ero ragazzino, ma confesso di averlo fatto anche io con i miei figli, che i miei genitori spesso mi compravano qualcosa senza che io lo chiedessi e, quando chiedevo spiegazioni, mi dicevano candidamente che loro sapevano che lo volevo o che ne avevo bisogno. Ora è Amazon che conosce ciò che desidero o che mi serve, prima ancora che io stesso lo sappia: straordinario, certamente inquietante e per certi versi sconvolgente, ma non possiamo negare che sia straordinario! Non rammento dove, ma una volta lessi una frase: “Capisci cosa desideri e impara a chiederlo”. Ora non è più necessario: Amazon, e in generale le multinazionali, con l’aiuto dei Data Scientist, lo sa e me lo porta a casa senza nemmeno chiederlo.
E’ evidente che in uno scenario del genere, dove la raccolta di dati personali è destinata a crescere sempre più vertiginosamente, il problema della salvaguardia dei nostri dati diviene centrale. Tornando a quello che è stato il nostro discorso di apertura, la raccolta di dati personali (eventualmente anche sensibili) non è il male assoluto. Anzi, in una certa misura, può essere considerata una cosa positiva.
Faccio un esempio, volutamente semplificato per metterne in evidenza l’utilità. Diciamo che ho un’allergia ad alcuni particolari cibi. Va da sé che questo sia un dato sensibile, che in teoria non vorrei rendere pubblico se non con le persone che mi sono vicine, di cui mi fido ed eventualmente con il personale medico, cioè ancora persone che nutrono la mia fiducia. Ipotizziamo anche che io abbia acquistato un frigorifero smart e, dato che sono estremamente pigro, abbia demandato a lui il compito di controllare cosa ho da mangiare in casa e fare poi la spesa. In un caso del genere è opportuno che io condivida con il frigorifero, cioè in ultima analisi con l’algoritmo di Amazon (o di qualsiasi altra multinazionale), questo mio dato, anche se personale e sensibile. Voglio infatti stare tranquillo che non comprerà mai nulla che mi possa in qualche modo danneggiare e non voglio nemmeno ricevere mai annunci pubblicitari che mi propongano cose che possano nuocere alla mia salute. In un tale scenario è evidente che ne usciamo tutti vincenti: io ho ceduto un mio dato personale, ma ne ottengo in cambio certamente un beneficio, così come anche Amazon (o chi per essa).
Spesso mi è capitato di assistere a dibattiti su questo tema e le conclusioni a cui si arrivava erano sostanzialmente sintetizzabili in questa frase: è necessaria una maggiore consapevolezza da parte nostra di quali dati stiamo cedendo, a chi li stiamo cedendo, per quali scopi e a quale prezzo. Sono d’accordo su tutto, tranne che sull’ultimo punto: il problema non può essere il prezzo! Posso condividere qualsivoglia tipo di dato, personale e anche sensibile, con gli algoritmi delle multinazionali, ma queste mi devono garantire che l’utilizzo che ne faranno sarà “etico“, come nell’esempio sopracitato del frigorifero. Tradotto in altri termini, il comportamento di questi algoritmi deve essere esattamente uguale al comportamento di una persona che risiede dentro nel mio cerchio della fiducia. Sarebbe estremamente interessante sapere se Amazon & Co. stiano mettendo in atto sperimentazioni di algoritmi che operino in questo senso.