Quella volta che ho fatto un viaggio nel tempo
Vi ho mai raccontato di quella volta che ho fatto un viaggio nel tempo? Era l’estate del 2012, verso la metà di agosto. Il mio viaggio di lavoro in visita alle filiali sudamericane della Società per cui lavoravo era al giro di boa e quel giorno dovevo volare da Montevideo a Cuzco, facendo scalo a Lima. Chi di voi ci è già stato, sa che l’avvicinamento all’aeroporto di Cuzco è qualcosa di veramente straordinario. Dal momento in cui le assistenti di volo avvisano che è iniziata la discesa verso l’aeroporto, cominci a guardare fuori dal finestrino. Se, da un lato, non puoi che restare incantato dallo spettacolo che ti si presenta sotto le ali, dall’altro è innegabile che la preoccupazione salga, mano a mano sempre di più. Sotto il tuo aereo, infatti, è una distesa ininterrotta di montagne e vallate: che meraviglia la Cordigliera delle Ande! L’avvicinamento è una serie continua di virate sopra a questi monti e a queste valli e, più il tempo passa, più ti viene da chiederti dove sarà mai questa città. Finché, quasi magicamente, la vedi comparire proprio di fronte a te. In un baleno le ruote dell’aereo toccano la pista, che, con i suoi 3300 metri di altitudine, credo sia una delle più alte al mondo. Sceso dall’aereo, recupero il bagaglio e vado alla ricerca del nostro referente in loco. La sensazione che si ha è quella di essere atterrati in un altro mondo, completamente scollegato da quello in cui siamo abituati a vivere.
La mia visita a Cuzco si sarebbe limitata solo a quella giornata, la mattina successiva, infatti, un volo mi aspettava per riportarmi a Lima, così cercai di sbrigarmi a fare quello che dovevo. Non avrei avuto ovviamente la possibilità di andare a vedere le rovine di Machu Picchu, ma almeno un giro per le vie di questa città peruviana non volevo perdermelo. Riuscii a terminare solo verso le 18 e il nostro referente mi accompagnò verso l’hotel. Era abbastanza contrariato, avendolo tenuto in aeroporto ben oltre il suo orario di lavoro e durante il tragitto non disse una sola parola. Mi scaricò davanti ad un muro di cinta con una sola porta di ingresso, per di più chiusa, ingranò la marcia quasi senza darmi il tempo di prendere le mie valigie e se ne andò. Immaginatevi la scena: in piedi in mezzo alla strada, deserta, davanti a quello che tutto poteva sembrare tranne che un hotel. Fuori dalla porta di ingresso nessuna insegna, soltanto un numero civico e per la strada nemmeno un’anima viva. Presi la mia valigia con me, mi diressi verso il più vicino incrocio per leggere il nome della via ed effettivamente corrispondeva. L’indirizzo era corretto: senza dubbio quello era il mio hotel. Tornai verso quella porta e suonai il campanello; mi aprirono ed entrai. Era una stupenda casa antica, rimodernata in modo ineccepibile, mantenendo lo stile originario; si sviluppava verso il basso per due o tre piani, un po’ come le ville sul lago di Como che hanno il garage sul terrazzo, a livello strada ed il resto della casa sta sotto. Dunque aveva un senso il fatto che dall’esterno si vedesse solo il muro di cinta ed il cielo sopra di esso! Scesi le scale verso la Reception, due piani più in basso, dove trovai una gentilissima signora per il check in. Feci presente che il mattino seguente il mio volo sarebbe stato all’alba e chiesi se mi avesse potuto prenotare già un taxi per l’indomani. Così fece e mi chiese anche cosa avessi preferito per colazione: non osavo nemmeno sperarci, vista l’ora a cui mi sarei dovuto alzare. Mi trovavo dall’altra parte del mondo, ma la signora riuscì a farmi sentire come a casa!
Il tempo di andare in camera, farmi una doccia, sistemarmi e venne in un attimo l’ora di cena. Era tardi, ero stanco, già sapevo che alla fine avrei dormito solo qualche ora, ma, cascasse il mondo, volevo fare un giro per la città e, per lo meno, mangiare qualcosa di tipico. Così mi coprii per bene e, chiudendomi la porta della camera alle spalle, uscii e salii le scale verso il portone che dava sulla strada. Proprio davanti a questa porta, un signore, sulla cinquantina, mi si parò davanti e mi salutò. Si presentò come il proprietario dell’hotel e voleva sapere cosa pensassi dello stesso e della sua ristrutturazione. Rimanemmo lì in piedi per un po’ a parlare. Mi raccontò che quella casa apparteneva alla sua famiglia da almeno 400 anni. Era una conversazione piacevole, ma io avevo fretta di uscire: il tempo era tiranno e stavo iniziando a scalpitare. Il mio interlocutore, incurante della mia fretta, continuava a raccontare. Poi, ad un tratto, mi chiese cosa avessi intenzione di mangiare. Gli risposi che avrei voluto assaggiare qualche specialità locale e che se mi avesse dato qualche buon consiglio gliene sarei stato molto grato. La sua risposta mi spiazzò decisamente. “Che ne dici di una pizza?“
Volevo rispondergli se mi stesse prendendo in giro. Ti ho detto che sono italiano, che ho voglia di provare qualcosa di locale, di tipico e tu mi proponi la pizza?!?!? Credo di aver fatto una faccia che valeva più di mille parole perché subito aggiunse: “Non fraintendermi. So che sei italiano e che proporti una pizza potrebbe suonare strano, ma, credimi, conosco un posto dove fanno una pizza veramente speciale: voi italiani siete i re della pizza ma ti posso garantire che non ne hai mai mangiata una così buona come quella che ti sto proponendo“. Mi stava forse sfidando? Aveva un non so che di strano quell’uomo, oserei dire misterioso, così decisi di raccogliere il guanto di sfida: e pizza sia! Visibilmente soddisfatto, riprese: “Ti dispiace se ti accompagno? Così possiamo continuare nella nostra chiacchierata…“. Acconsentii con piacere: come vi dicevo, era una compagnia molto piacevole, ma, al di là di tutto, dopo venti giorni a mangiare quasi sempre da solo, probabilmente anche un ornitorinco sarebbe stato di compagnia. Usciamo quindi in strada e avverto una sensazione difficilmente descrivibile. La temperatura si era notevolmente abbassata rispetto al pomeriggio inoltrato in cui ero arrivato all’hotel e l’umidità della giornata si stava repentinamente tramutando in una sorta di nebbia, molto più ovattata di quella a cui siamo abituati qui in Pianura Padana: non sembrava reale, ma come creata artificialmente… Sulle prime non ci feci caso e pensai si trattasse semplicemente della reazione tra la forte umidità ed il freddo che era sceso. Così, messi da parte questi pensieri, ci incamminammo verso il centro città. Il mio compagno di viaggio iniziò a raccontarmi di questa pizzeria e del suo proprietario, un amico suo e di quanto tempo quest’uomo avesse passato a ricercare la ricetta migliore e gli ingredienti più adatti. Mi disse che non dovevo scegliere il gusto che avrei preso, ma che mi sarei dovuto affidare completamente al titolare della pizzeria: aveva, sosteneva il mio amico, un sesto senso per capire quale fosse la pizza migliore per ognuno dei suoi commensali. Mentre lo ascoltavo narrarmi le gesta di questo pizzaiolo dai poteri quasi mitologici, una sensazione di piacevole inquietudine cominciava ad albergare in me. Mi sentivo come un ragazzino che inizia ad esplorare un mondo mai visto: tutto è ignoto e, proprio per questo, fonte di inquietudine, ma lo spirito di scoperta ha la prevalenza e la rende piacevole. MI guardavo attorno e non riconoscevo la gente che camminava per le strade di quel luogo. Complice forse la nebbia che ci avvolgeva, mi sentivo come un fantasma o un ologramma. Avete presente A Christmas Carol di Charles Dickens? quando Ebenezer Scrooge visita i suoi Natali del passato e del futuro? Nessuno lo può vedere o sentire, ma lui è li. Ecco, io mi sentivo esattamente così, come se nessuna di quelle persone potesse accorgersi di me.
Percorse poche centinaia di metri, il mio compagno si fermò davanti a una casa molto vecchia. Nulla faceva pensare ad un ristorante, se non una piccola insegna, quasi invisibile, sopra la porta, che notai solo perché si trovava esattamente all’altezza dei miei occhi. La porta infatti era molto bassa e, subito sopra appunto c’era questa insegna, in legno, con scritto Pizzeria. “Ti dispiace se entro anche io e ti faccio compagnia? Non prendo nulla, ma vorrei continuare a scambiare due parole con te. Non ti ho ancora detto di quando sono stato in Italia, vero?“. Acconsentii con piacere a patto che prendesse anche lui una pizza: se il pizzaiolo doveva scegliere per me, che avesse scelto anche per lui! Ero curioso di vedere la differenza fra le due scelte, ma soprattutto mi incuriosiva sapere del suo viaggio in Italia. Facendo attenzione a non picchiare la testa nello stipite della porta, entrammo. Mentre scendevo i cinque gradini che portavano al locale non potei fare a meno di rimanere affascinato da quel luogo. Sembrava di essere piombati di colpo in una locanda medievale. Era un locale molto stretto, credo non più largo di due metri e mezzo o tre. Le pareti erano tutte fatte di sassi a vista, irregolari. Appese ad esse, lanterne e torce davano luce a quel posto. Il soffitto, a volta molto accentuata, era costellato di armature, lance, elmi,… C’era un unico salone, con credo non più di cinque o sei tavoloni in legno, che definire rustici o spartani è un bell’eufemismo! Erano messi su due file, affiancati per il lungo, in modo da lasciare solo un piccolo spazio tra uno e l’altro per permettere il passaggio. Un corridoio centrale separava le due file di tavoli, quasi fossero due tavolate uniche, collegando l’ingresso con la cucina. Proprio su questo corridoio un uomo ci venne incontro non appena ci vide scendere le scale. Per l’aspetto e i vestiti che indossava avreste sicuramente detto che apparteneva ad un altro luogo e ad un altro tempo, ma lì, in quel locale, era perfetto, come l’ultimo pezzo di un puzzle! Ci fece accomodare ai primi due posti del primo tavolo a fianco della scala ed io fui soddisfatto: dalla mia posizione avevo una visuale perfetta su ogni singolo centimetro di quel luogo. Era bellissimo, ma continuavo a provare quella piacevole inquietudine di cui vi parlavo prima. Al contrario dell’oste, sentivo di non appartenere a quel luogo (o forse, non appartenevo a quel tempo), ma, allo stesso modo, sentivo di non riuscire a staccarmici. Decisi quindi di lasciarmi andare e di godermi la serata, il locale, il mio compagno di viaggio e la pizza che quell’oste medievale aveva scelto per me!
Fu una serata veramente piacevole; parlammo di tutto, soprattutto dell’Italia. Scoprii che, molti anni prima, il mio nuovo amico era stato in Italia e aveva avuto una storia con una ragazza di Pescara. Mi raccontò che avevano due vite agli antipodi, proprio come i posti in cui vivevano ed entrambi erano consapevoli che questa storia non avrebbe mai avuto un futuro, ma ebbero comunque il coraggio di viversela fino in fondo. Disse che non importava quanto sarebbe durata, fosse stato anche un solo giorno, ne sarebbe valsa la pena. Mentre ne parlava, gli occhi gli si accesero. Per lui, quella donna non si era mai allontanata dal suo cuore.
La pizza era effettivamente molto buona, forse non la migliore del mondo, ma sicuramente un’ottima pizza. Quello che la rendeva unica era l’ambiente in cui mi trovavo e la gente che mi stava intorno. A parte l’oste e il mio compagno di viaggio, nessuna delle altre persone presenti, nel locale o fuori per strada, sembrava poter interagire con noi: la sensazione Dickens continuava. Terminata la pizza ed un paio di birre, uscimmo e ci dirigemmo di nuovo verso l’hotel. Quell’uomo si era fatto ora più silenzioso: forse la stanchezza o forse il ricordo di quella ragazza. Nel breve tragitto verso l’hotel, scambiammo di fatto solo due parole di circostanza. Giunti davanti alla porta di ingresso, me la aprì e mi augurò buon viaggio per il mattino seguente. Disse che lui si sarebbe fermato lì fuori a fumare una sigaretta. Si vedeva lontano mille miglia che non era più lì con me, così lo ringraziai per la splendida serata e lo salutai. Scesi verso la mia camera: quella nebbia ovattata non mi aveva ancora abbandonato. Il tempo di mettermi a letto e puntare la sveglia: subito entrai in un sonno profondo.
Quando mi svegliai l’indomani mattina, in realtà poche ore dopo esser andato a dormire, la nebbia era completamente scomparsa. Lo notai immediatamente appena uscii dalla camera per scendere a fare colazione. Era ancora buio, ma della nebbia della sera precedente non era rimasto nulla. L’aria era molto fresca. Feci colazione e tornai in camera per prendere la mia roba. Un rapido check out e in breve fui in strada dove un taxi mi stava aspettando per portarmi all’aeroporto. Salendo su quell’auto mi voltai verso l’hotel: non so spiegarlo, ma avevo la certezza che quello non era lo stesso luogo in cui ero stato la sera prima. Era come se con la nebbia, anche quel luogo in cui avevo vissuto la sera precedente se ne fosse andato. Non riconoscevo più la via fuori dall’hotel e non riuscivo più nemmeno a trovare la strada che avevo percorso a piedi solo poche ore prima. Soprattutto, mi aveva abbandonato quella dolce inquietudine che era stata con me: tornare a sentirsi come tutti i giorni, mi fece provare nostalgia di lei!
Cos’era accaduto la sera prima? Se devo essere onesto non so darne una spiegazione. Era stato un viaggio nel tempo? Da uomo razionale non posso che negarlo, questo è fuor di dubbio, ma una parte di me resta fermamente convinta di averlo fatto! Nel corso di questi anni mi è capitato spesso di ripensare agli accadimenti di quella notte, al proprietario dell’hotel, a quella pizzeria e al suo oste, a tutte le persone che ho incontrato per strada quella notte e che, ne ho la certezza, non ci hanno visti. Ripenso a quella nebbia, ovattata, amichevole e rassicurante. Mi ha preso, mi ha avvolto fra le sue amorevoli mani e mi ha trasportato in quell’altro tempo, quasi volesse farmi dare una “sbirciatina” per poi riportarmi a casa. So per certo che ne sarò grato per sempre!