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Con due figli grandi che, ormai da tempo, hanno smesso di credere a Babbo Natale, le liste dei desideri di Jeff Bezos aiutano parecchio nel sondare i desideri dei propri cari. Uno degli oggetti che mia figlia ha inserito nella lista è un disco di Harry Styles, ma, udite udite, nella versione in vinile. Sulle prime rimango un poco perplesso. Giulia ha vent’anni: che mai ne può sapere lei dei vinili? Così, mi son fatto coraggio e ho chiesto, anche perché da noi, in casa, giradischi non se ne vedono più da diversi anni.
Disse che era consapevole del fatto che non avrebbe potuto sentirlo, ma voleva ugualmente il vinile un po’ per curiosità verso un mondo che certo non le appartiene e un po’ perché aveva letto che si trattava di una versione particolare, da collezione e che quindi le sarebbe piaciuto. Mia moglie, che in queste cose è più lesta di un felino, prende subito la palla al balzo e decide di aggiungere al vinile, anche un giradischi. “Immagini la sorpresa?” mi dice. Così, per dirla con Cesare, il dado è tratto: vinile di Harry Styles e giradischi. Vederla, oggi, aprire il pacco regalo contenente il giradischi e osservare lo stupore nei suoi occhi, che fino all’ultimo non erano in grado di riconoscerne il contenuto è stato impagabile.
Faccio una piccola premessa. Sono un amante della musica, ho alcuni cantanti preferiti, ma amo ascoltare un po’ di tutto e di tutti i generi. Da ragazzo ho anche studiato per diversi anni uno strumento e ancora oggi mi piace ritagliarmi del tempo e provare a suonare qualcosa alle tastiere. Dicevo appunto che sono un amante della musica, ma non sono un fanatico del vinile. Anzi, credo di essere un super fanatico della musica digitale. Si, lo so, avete ragione: la musica su vinile ha un suono diverso, quello digitale è meno puro, tutto quello che volete.
Tutto questo, però, è niente se confrontato con la possibilità di mettermi nelle orecchie le cuffiette dell’iPhone e rendere un momento straordinario anche le ore sui treni dei pendolari; la promessa che Steve Jobs fece a sua figlia: “Lisa, voglio mettere tutta la musica nelle tue tasche” è forse uno dei regali più belli della tecnologia. Ripenso ai viaggi in giro per il mondo, ai lunghissimi voli transoceanici o, appunto, alle ore spese sui treni dei pendolari verso l’ufficio. Come sarebbero stati senza l’invenzione della musica digitale? Letteralmente milioni di canzoni, tutte nel nostro piccolo smartphone, come e dove vogliamo. E il prezzo da pagare è “solo” una qualità un poco inferiore al vinile? Non importa: musica digitale tutta la vita, con buona pace dei puristi del vinile!
Tutto giusto, corretto, sensato… ma, c’è un però! E io l’ho scoperto solo oggi, 25 dicembre 2021. Torniamo a mia figlia che scarta il pacco con il giradischi. Apre la valigetta che lo contiene e rimane un poco basita. In una mano tiene il 33 giri e sul tavolo lo strumento che lo dovrebbe suonare. Provate a mettervi nei panni di chi è nato già quando il CD non dico fosse superato, ma quasi. Si trova davanti il piatto, il braccio con la puntina, manopole old style … niente ha senso! Cosa ha a che fare tutto questo con la musica? Ironia del destino, al momento di iniziare a scartare i regali, mia moglie aveva detto ad Alexa di suonare una playlist di canzoni di Natale. A che serve tutto ciò? Così mi avvicino e inizio a spiegare.
Tiro fuori dalla custodia il vinile e dico a Giulia “Vedi, queste sono le tracce delle canzoni. Devi fare attenzione a come lo maneggi e lo metti sul piatto: non devi graffiarlo perché altrimenti si rovina e il suono ne risente. Una volta sul piatto, sollevi il braccio e lo avvicini al disco, poi, delicatamente, con l’apposita asticella, fai scendere il braccio fino a che la puntina incontra i primi solchi del disco“. A questo punto una strana sensazione mi prende all’improvviso, originata proprio da quel suono che non sentivo più da moltissimi anni: la puntina che inizia a scorrere sul disco che gira sotto di lei. Sono, per così dire, spaesato.
Poi la musica inizia, il suono è pulitissimo, Giulia alza il volume e inizia a ballare… Ma la mia strana sensazione non mi ha abbandonato: è ancora lì con me, come messa in pausa. Ho già capito cosa devo fare, ma devo attendere: ora è il turno di Harry Styles. Non c’è problema: sistemo le carte e i nastri dei regali scartati, do un’occhiata ai libri che mi hanno regalato, accendo il camino e inizio a sistemare la sala per il pranzo di Natale. Intanto la musica prosegue e io scendo al piano di sotto a prendere una cosa, in attesa del mio momento.
Non devo attendere molto… i due dischi dell’ex cantante degli One Direction sono finiti e, adesso, tocca a me. Dal piano di sotto ho portato su il 33 giri di Bruce Springsteen “Born In The USA”; con un’emozione che mi prende ancora adesso mentre ne sto scrivendo a distanza di ore, estraggo il disco dalla copertina protettiva interna, appoggio il foglio con i testi e, con delicatezza, depongo il disco sul piatto. Sollevo il braccio avvicinandolo in corrispondenza della prima traccia (la prima del lato B, No Surrender: la mia preferita) e, piano piano, lo faccio scendere; la puntina inizia a scorrere sul disco prima ancora che inizi la prima traccia. Il suono è inconfondibile, la sensazione di prima ritorna, ma questa volta è ancora più forte ed esplode in concomitanza con la batteria di Max Weinberg.
Ci siamo: tutto ciò che avevo intorno scompare come d’incanto. E’ di nuovo l’estate del 1985, ho 17 anni e sono nel salotto della casa dove sono cresciuto: una villetta, alla fine di una strada che confina con i campi, in un paese della provincia ovest di Milano. Il volume dello stereo è al massimo e la musica di Springsteen invade la casa. Inizia Max alla batteria, poi arriva tutta la E Street Band con la sua forza travolgente, il coro “Oh oh oh oh oh oh….” e, infine, il Boss attacca: “Eh we busted out of class, had to get away from those fools, we learned more from a three minutes record than we ever learned in school”. Ero in terza liceo e con una voglia di studiare poco sotto lo zero; allora non si usavano i debiti e a giugno mi avevano rimandato a settembre con tre esami: storia (4), inglese (4) e filosofia (5).
Avevo da qualche mese scoperto la musica di Springsteen e mi aveva folgorato. Le mie giornate passavano ascoltando Born In The USA a tutto volume e le sere a discutere con mio padre sul fatto che non volessi più studiare. Risultato: a settembre l’esame di inglese fu una passeggiata: superato brillantemente (e, aggiungo, senza fatica) con un esaltante 8… sfortunatamente storia e filosofia non li impari ascoltando i dischi e così fui bocciato. Fu però la svolta.
Quell’otto in inglese mi aveva fatto capire una cosa fondamentale: non esiste nulla di difficile da imparare, devi solo trovare il driver che ti guidi, che ti dia lo stimolo giusto per appassionarti alla materia. La musica di Springsteen è stato, nel mio caso, il driver per l’inglese, a quel punto dovevo solo trovare quello per le altre materie. Non fu certo facile, ma alla fine fu comunque un successo.
La canzone sta volgendo al termine. “‘cause once we made a promise, we swore we’d always remember, no retreat, baby, no surrender, blood brothers in a stormy night with a wow to defend, no retreat, baby, no surrender“. Piano piano ritorno al 2021, ma questa macchina del tempo riesce a mantenere un’ancora nel passato. Presente e passato coesistono, a rievocare le promesse fatte allora. Così, con questi pensieri nella testa, fa capolino anche il futuro per ricordare che una promessa non ha una data di scadenza e che, per quelle ancora non mantenute, rimane comunque del tempo. Tempo per provare, tempo anche per sbagliare, ma, in ogni caso, tempo per fare!
Articolo aggiornato il 27/12/2021 16:45