La strana vita che si muove metrò a Milano
Milano considera la pazzia una lecita forma di libertà alternativa. Sull’autobus sale una donna sui settant’anni, ordinata e ben vestita, capelli a caschetto, senza ricrescita. Borsetta intonata alle scarpe. Timbra il biglietto. Sorride, e dalle labbra le esce una raffica di parolacce feroci. Sta insultando qualcuno ma non parla al telefono. Scende alla fermata, sempre urlando le parolacce peggiori. Nessuno fa commenti. Poco dopo sulla banchina del Metrò appare una cinquantenne a piedi nudi, con un camicione di sacco. Cammina fra la gente cantando, parlando di gloria e invitando alla conversione. Esce da Hair o emula San Francesco? Nessuno ci fa caso, anzi. Tolleranza massima, nessun imbarazzo.
Ricordando C.T. Liberi e alternativi
Come negli anni ottanta, quando Carlo Torrighelli frequentava le vie intorno al Castello Sforzesco con il suo triciclo a motore e i tre cani, La Bella, L’Amur e L’Umanità. Lo conoscevano tutti e nessuno gli mancava di rispetto. Scriveva sui muri e sui marciapiedi.“Popolo bue. La chiesa ti uccide con l’onda”, si copriva la testa con il domopak e predicava contro Urss, Usa e Vaticano. Nel 2005, i Teka P, gruppo rock di lingua milanese, gli dedicarono una canzone: C.T., inserita nell’album “Caragna No” (Non piangere). Diceva: “Cuma l’è, cuma l’è che podi mia parlar?” Perché non posso parlare?
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