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Gratius ex ipso fonte bibuntur aquae: con queste parole, nelle Epistulae ex Ponto, Ovidio ammoniva a ricercare la vera conoscenza alla fonte, senza dunque fermarsi ad informazioni indirette ed approssimative. Nell’ambito sociale della contemporaneità, la fonte più autentica della conoscenza non può che essere, ancora, la scuola. Non può che essere lo spazio, fisico e mentale, all’interno del quale ogni individuo passa una ragguardevole parte del proprio tempo fin dall’età più tenera. Una scuola che sia, o torni ad essere, un’avventura esperienziale realmente formativa, e che all’indispensabile trasmissione delle nozioni scientifiche associ l’imprescindibile attività di costruzione dell’uomo, del cittadino e del lavoratore.
Il tourbillon di riforme, accorgimenti normativi e cambiamenti – spesso gattopardeschi – promosso dalla politica negli ultimi quindici anni non ha sortito l’effetto di una parallela crescita, in senso qualitativo e quantitativo, dell’offerta formativa: ad oggi, le istituzioni scolastiche – aggettivo che uso in senso ampio includendo anche tanti percorsi universitari – non preparano, ex se, al mondo del lavoro.
Il corredo professionale ed esperienziale lasciato in dote dalle istituzioni scolastiche non è sempre, in sé, ritenuto idoneo al diretto inserimento del soggetto che lo possiede nelle posizioni lavorative di riferimento. Un rinnovato concetto di scuola come primum movens di avviamento professionale specifico potrebbe forse giovare, nel quadro di un approccio più pragmatico e meno astratto alla formazione, alla semplificazione dell’accesso al mondo del lavoro. Naturalmente, a tal fine occorrerebbe un ripensamento globale, che si sostanzi in una revisione chirurgica degli stessi programmi ministeriali di studio, revisione che – condotta con giustinianea ispirazione – sostituisca a una preparazione teorica e scolastica l’apprendimento, anche pratico, di quegli atteggiamenti professionali riferiti alla materia la cui padronanza rappresenterà poi la condicio sine qua non per l’inserimento lavorativo.
Questa realtà si fa macroscopicamente evidente proprio nell’ambito dell’insegnamento: la Repubblica Italiana esige percorsi abilitanti post lauream per riconoscere un insegnante come tale in senso vero e proprio. Siamo tutti d’accordo nel ritenere che conoscere non sia sufficiente per insegnare, e che il trasmettere conoscenza richieda la padronanza di strumenti metodologici e pedagogici assai specifici. Come alcuni hanno – fortunatamente – già notato, è necessario che questi requisiti siano sviluppati integralmente all’interno di qualsiasi percorso di Laurea incentrato su discipline oggetto di insegnamento scolastico: per snellire ulteriormente il percorso formativo, sarebbe auspicabile che ciò avvenisse nel superamento degli obblighi curriculari relativi all’accesso alle classi di concorso. Senza ulteriori lungaggini: dalle Università devono uscire insegnanti fatti e finiti.
Coloro i quali vorranno poi dedicarsi ad ambiti lavorativi differenti da quello scolastico potranno comunque giovarsi delle nozioni acquisite, al pari di chi, per necessità o vocazione, deciderà di fare il professore. Potrebbe essere una passo importante, se non decisivo, per decongestionare l’asfittico ed elefantiaco processo di scorrimento delle graduatorie, e per riqualificare la stessa figura dell’insegnante, sempre un pò umanista e un pò precario: è ora che questa figura professionale, svilita da un certo imbarbarimento culturale vissuto dall’Italia negli ultimi decenni, riemerga dal Girone dei Supplenti.
Più in generale – e mi fermo a quest’ultima, provocatoria osservazione – esprimo il disappunto che mi pervade ogni volta che sento cantare il paradossale refrain dei troppi laureati, troppi titoli, al mercato del lavoro servono persone che sappiano “fare”: evidentemente, c’è qualcosa che non va. Sacrosanto sia sempre il diritto allo studio, basilare fondamento della società civile: auspichiamo, tuttavia, che tale concetto non venga mai confuso con quello di diritto al titolo di studio.
Articolo aggiornato il 05/10/2015 00:41